martedì 4 maggio 2010

J.L. Borges Forvore a Buenos Aires

Non ho riscritto il libro. Ne ho mitigato gli eccessi barocchi, ho limato asperità, ho cancellato sentimentalismi e vaghezze” dichiara Borges nel 1969 ripresentando la sua prima raccolta poetica. Il giovane ultraista colpevole di “innocenti novità rumorose “ che l’aveva pubblicata nel 1923 e colui che ora “si rassegna o corregge” sono inequivocabilmente la stessa persona: “entrambi diffidiamo del fallimento e del successo, delle scuole letterarie e dei loro dogmi; entrambi veneriamo Schopenhauer, Stevenson e Whitman” – e “Fervore di Buenos Aires” prefigura tutto ciò che avrei fatto in seguito”. Diagnosi non si potrebbe più precisa. Buenos Aires, non v’è dubbio, è la protagonista assoluta: con i suoi patios “che hanno fondamenta / nella terra e nel cielo”, i crocevia trafitti “da quattro lontananze senza fine”, i sobborghi “riflesso del nostro tedio”. Ma non è un caso che la città dischiuda i suoi segreti al tramonto, quando il silenzio che abita gli specchi “ha forzato il suo carcere”, e di notte, allorché gli orologi spargono un tempo vasto e generoso, “dove ogni sogno trova posto, / tempo di ampiezza d’anima”. È la terribile congettura di Berkeley e di Schopenhauer: il mondo è atto della mente, sogno ostinato che rischia di dissolversi non appena sono pochi a sognarlo e “solo qualche nottambulo conserva, / cinerina e abbozzata appena, / l’immagine delle strade / che poi definirà con gli altri”. In appendice a “Fervore di Buenos Aires” vengono per la prima volta radunati non solo i sette testi espunti nel corso del lungo iter elaborativo conosciuto dalla raccolta, ma anche un nucleo di dieci poesie apparse in varie riviste negli anni 1920-1922 e non accolte nell’”editio princeps” del 1923.

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